Avviso ai naviganti

Anno: 1999

 

1999
Castel dell’Ovo, Napoli.

Sponda di mare, fragile confine, acqua e terra: ai suoi, la storia. Si alza una pietra,si sposta un pò di sabbia: dal passato riaffiorano frammenti, memorie, che il vaso del tempo infrangendosi sulla terra ha disperso in mille cocci. Su di uno di questi, dipinta, la scena di u naufragio: uomini e pesci che galleggiano sulla ceramica. Accanto, su un frammento di cratere, in alfabeto calcidico leggiamo: “… Da questa coppa gusterai le delizie di Afrodite…”. E’ ancora il riaffiorante di un Eros sepolto tra strati di ceneri vulcaniche e mirto, la nostalgia per una sopita mitezza dell’anima, l’immagine dell’infanzia lontana. Le figure dei naufraghi “fanno il morto”, come per gioco, sembrerebbero uomini immersi in un liquido inebriante che sospende la vita e allenta i legami della terra.

Ma dove ci troviamo: su di un’isola, Ischia, l’antica, Pithecusa; l’America per quei coloni che un giorno vi si insediarono. Cercavano materie prime, quei Greci, soprattutto ferro, e con quel metallo volevano redimere questioni che li avevano spinti a risolvere il problema altrove. Erano troppi nelle loro case, sulla terra erano di troppo; anche gli dei lo sapevano, ed erano stanchi di quella soluzione satura, pronta a precipitare. Gli dei litigavano e presto anche gli uomini, che di questi non tanto si fidavano. Erano stati loro che, qualche volta, per alleggerire la terra avevano mandato la guerra e, un qualcosa che da essa non era da distinguere, la malattia che contagia. Solo l’esodo, il lungo navigare lontano, poteva riabilitare l’onore di quegli uomini nutriti e istigati dal canto di un poeta cieco. Finiva un ordine, ne nasceva un altro. Così erano partiti, e solo il lancio minaccioso di pietre li avrebbe riaccolti nelle case; inoltre, si portavano dentro l’angoscia di aver trascurato un obbligo che oggi a stento riusciamo ad intravedere: la cura dei morti. Gli antenati a volte sono più lamentosi e viziati dei vivi, non amano lasciare il suolo, né tantomeno essere trascurati e per chi partiva il suono sinistro del Meltemi, forte vento greco, doveva farglielo ricordare. Rimaneva il canto da trasferire con sé e disseminare come le spore in tutti gli approdi, le isole, con fragili vele, proprio con l’aiuto del vento, come accade alle piante.
In un’altra parte del mondo, popolazioni australi spostavano sconfinati orizzonti, nella loro marcia, munite di repertori di canti, di mappe-spartito che permettevano loro “come” di srotolare il paesaggio. Nelle zone limite, di confine con altri simili, erano abituate a barattarlo, scambiandoselo.
L’autentico canto corale in occidente potrebbe nascere da una pratica analoga. Cantando si evocano gli antenati che dall’invisibile indicano la strada che a noi mortali non è data vedere. In seguito quella lunga strada, scorrendo nel buio come una vena, sotterranea e incerta, doveva rotolare fino a noi che ne raccogliamo i cocci, dopo tanto tempo, sparsi.
Oggi faremo nostro uno di questi frammenti, con il motivo dei pesci e degli uomini che “fanno il morto”.
Ora che la terra è tornata satura, gli uomini sono di nuovo di troppo e gli dei sono diventati malattie, è tempo di ripartire. Sentiamo la necessità di riprendere il cammino sul mare e disseminare come spore, il nostro naufragio, il nostro canto.

Sergio Fermariello