Anno: 2016
“… nasconditi, non mostrarti alla
luce del sole, quando sbarcherai
nella terra dei tuoi padri…”
Odissea – Canto XI
“Lavoro nero” ripeteva don Mario inquieto, “lavoro nero”. Si era già pentito, evidentemente, di averci fatto entrare nel lido, carichi come eravamo di ferraglia e clandestini.
In fondo gli chiedevamo solo di potere accedere alla spiaggia e scaricare il materiale, ma coloro che avrebbero dovuto effettuare il lavoro quel giorno, sosteneva, non erano in regola e si rischiava un controllo.
Lavoro nero dunque, nero come il colore della pelle di quei ragazzi che mi ero portato dietro e dei loro volti, che riuscivi a malapena a scorgere, attraversando di notte quelle strade buie, simili alle tante polverose che avevano lasciato partendo e solo due grandi bulbi rifrangenti, bianchi come albume, ti restituivano lo sguardo da fiera braccata, alla luce baluginante dei fari.
Nero era anche il colore dei teli di cotone, che quella mattina mi accingevo a disporre su quel residuo di dune sabbiose che il mare, qualche metro all’anno, avanzando, non restituiva.
Per i popoli nomadi, accendere fuochi e smontare bivacchi nella steppa, nel deserto, dovette sembrare per secoli, un gesto eloquente e semplice quanto pregare; quanto poteva risultare per noi un artificio tutta quell’operazione, che ambiva a mettere in mostra il nostro perenne lutto errante.
Mi ero rivolto a quei ragazzi in particolare, non perché li considerassi come ultimi arrivati, spogliati ormai di quell’alone di mistero che sempre sembrava aver accolto lo straniero nei suoi fortunosi sbarchi, ma proprio in quanto unici eredi dei primi coloni che qui vi si insediarono; ultimi superstiti, nel fisico e nella postura, di quello che un giorno era stato un “corpo”, in occidente, nella carne ormai diafana della storia.
Per reclutarli, mi ero rivolto direttamente a Franco, stagionale presso quel lido e futuro ambasciatore del Ghana, per la capacità, che tutti gli riconoscevamo, di organizzare il lavoro altrui; quegli “altri”, tutti o quasi, sprovvisti di permesso di soggiorno, quindi irregolari e come aveva sottolineato quella mattina don Mario: abusivi.
Nella condizione di abusivo don Mario, il proprietario dello stabilimento, mi vedeva inserito a pieno titolo, non tanto nei confronti dei clandestini, di cui non temeva il loro “status” ma dello “Stato”… di abbandono, gli rispondevo, in cui questi, aveva lasciato quel territorio.
Senza forma apparente andavo a dispormi quel giorno sulla spiaggia e Senza titolo, come i tanti quadri a cui non avevo saputo dare nome, e come i tanti principi miserabili che da anni, in assenza di Nessuno, si spartivano quella terra, come un ultimo macabro bottino.
La struttura dell’opera, da terra, si presentava divisa nella molteplice serie dei suoi frammenti sparsi, per poi restituirsi, nella sua intera Imago, solo ad una certa quota, come l’immagine ricomposta di un padre nostro, Altissimo: la figura dell’Antenato.
Ormai non abitava più, nell’alto dei cieli ma spiaggiato, non si riconosceva.
Noi tutti, smarriti sotto tante costole, all’ombra del sudario, osservati dall’alto, con l’artificio del volo, ricordavamo del mito, le falangi inquiete del ciclope cieco quando, tastando a vuoto il buio, tentavano di stanare quell’eroe nascosto, presentatosi come Nessuno che, un giorno, ritornato in patria sotto mentite spoglie, avrebbe liberato la sua stessa terra dall’informe caos che vi regnava.
In seguito, per tutto il tempo che l’installazione rimase esposta al cielo come un’offerta, per via di tutto quel metallo conficcato sul demanio e dei teloni che sembravano presagire un abuso, nessuno sospettò l’arcana forma che si celava recondita e, di fatto, fummo lasciati in pace, come si lascia in pace qualcuno, quando se ne teme l’arbitrio.
Ma di quell’eroe nessuna traccia, all’avanzare prossimo della marea.